La Cassazione nel caso specifico ha ritenuto che non sussiste la denunziata violazione dei limiti entro i quali è consentito al datore di lavoro lo svolgimento di accertamenti investigativi; come correttamente evidenziato dalla Corte di merito, gli accertamenti disposti dalla società erano legittimi in quanto non avevano finalità di tipo sanitario ma miravano a verificare se le plurime specifiche condotte extralavorative, poi contestate, fossero o meno compatibili con la malattia addotta dal lavoratore per giustificare l’assenza dal lavoro e dunque l’idoneità della predetta malattia a determinare uno stato di incapacità lavorativa. Non è precluso al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l’assenza (Cass. n. 11697/2020, Cass. n. 15094/2018, Cass. n. 25162/2014, Cass. n. 6236/2001).
La condotta del dipendente in esame si poneva in contrasto con i generali doveri di correttezza e buona fede nonché con gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nell’esecuzione del contratto che avrebbero imposto al lavoratore, assente per malattia, di comunicare al datore di lavoro l’intervenuto anticipato recupero delle proprie abilità e di non svolgere attività extralavorative che potessero ritardare o pregiudicare la ripresa del servizio.
In considerazione di ciò, la Cassazione ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento per comportamenti rimproverabili quanto meno a titolo di colpa e denotanti imprudenza, abitudinaria noncuranza verso gli obblighi contrattuali, scarsissima inclinazione a collaborare con la controparte per consentire il regolare funzionamento del rapporto negoziale.
Pertanto il licenziamento è illegittimo in assenza di prove sufficienti per dimostrare che le attività svolte abbiano compromesso la guarigione o ritardato il rientro in servizio.